La Fondazione Wanda Di Ferdinando lancia la call PAROLE AL FUTURO aperta al Terzo Settore, al mondo della Cultura, al mondo della Scienza. Fino al 10 Maggio è possibile inviare contributi.

1) IN COSA CONSISTE? Nel trovare parole che ci aiutino a capire e a raccontare l’emergenza sanitaria in corso a partire dalle esperienze individuali; che ci aiutino a esprimere cosa stiamo imparando da questa difficile quotidianità; che ci restituiscano un senso di vicinanza, che ci indichino verso quale futuro vogliamo tendere.

2) COME PARTECIPARE? Occorre mandare un’e-mail a info@fondazionediferdinando.org indicando la parola o le parole scelte (la parola può essere contenuta nel testo, può diventare un disegno, può essere raccontata tramite video).

3) PER QUALE MOTIVO CONTRIBUIRE? Per mettere in circolo e stimolare riflessioni, per dare un apporto in termini di visione, per far emergere considerazioni a più voci rispetto a un fenomeno complesso, dando spazio in primis agli attori del Terzo Settore.

Trasformeremo le PAROLE che giungeranno in una riflessione collettiva.

 

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DA COSA NASCE? – Sempre più linguisti, economisti, sociologi, scrittori sottolineano l’inadeguatezza di un linguaggio di guerra per descrivere i giorni di smarrimento che stiamo vivendo. Una questione che riguarda profondamente il nostro immaginario e il nostro tessuto sociale.

Nell’articolo Da Brescia si leva un grido: basta parlare di guerra, pubblicato il 24 Marzo 2020 sul portale Comune-Info, Mimmo Cortese scriveva: “le parole per affrontare questa pandemia sono cura, ricerca medica, responsabilità, condivisione, attenzione, salute, precauzione, guarigione, cautela, solidarietà, fragilità, lentezza, protezione, amore. Nulla a che vedere né con la guerra né con i simboli che essa propala e scatena. Il linguaggio che usiamo racconta sempre molto di più di quanto non appaia, di quanto a noi non sembri; lancia le sue ombre, i suoi presagi funesti, oppure lascia intravvedere le vie di risalita, le rocce cui ancorarsi, prima, molto prima che il nostro occhio le scorga.”

Proprio a partire da queste considerazioni è nata l’idea di dare un contributo con la call PAROLE AL FUTURO.

Clicca qui per consultare la rassegna stampa di approfondimento dedicata al tema.

 

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UNA PANORAMICA – Oggi sono tantissimi i politici, gli scienziati, gli esperti che si sono appropriati della metafora bellica per raccontare il dilagare della pandemia (rimandiamo all’analisi Federico Faloppa nell’articolo Sul «nemico invisibile» e altre metafore di guerra pubblicato su Treccani).

Una metafora che mette insieme due fenomeni differenti, la malattia e la guerra, che se hanno i medesimi effetti (ovvero la morte delle persone) non hanno, di certo, né medesime cause, né medesime possibilità di prevenzione (come spiega Fabrizio Battistelli in Coronavirus: metafore di guerra e confusione di concetti apparso su MicroMega e Guerra al coronavirus, prevenire è meglio che combattere pubblicato su Vita).

L’uso del linguaggio bellico per interpretare la malattia non è un fenomeno recente. Bene lo ricorda Daniele Cassandro nell’articolo di Internazionale Siamo in guerra! Il coronavirus e le sue metafore  citando la scrittrice americana Susan Sontag che affrontava la questione già negli anni ”80. “Parlando dell’epidemia da hiv Sontag spiega perché ci viene tanto facile affrontare un’emergenza sanitaria come fosse una guerra, anziché come un complesso problema sociale, culturale o di emarginazione di determinate categorie di persone”

E aggiunge Cassandro in chiusura: “Liberarsi da una malattia, superarla per tornare a vivere tra i sani, non è una questione di valore militare, di forza, di costanza, di eroismo del singolo; è una questione di essere ben curati, di risorse sanitarie e anche, purtroppo, di fortuna”.

“L’automatismo della metafora bellica mi sembra troppo persistente e diffuso per essere ridotto a pura sciatteria lessicale” afferma Annamaria Testa nell’articolo Smettiamola di dire che è una guerra (pubblicato su Internazionale). “Tra l’altro: sulla scelta delle parole che servono per descrivere le cose si gioca anche buona parte della propaganda politica contemporanea. Per esempio, quando sceglie di chiamare “virus cinese” il Covid-19, Donald Trump non si limita a proporre un diverso nome per nominare la medesima cosa. Fa, per dirla con George Lakoff, una esplicita operazione di framing, di incorniciatura. Inquadra, cioè, il virus evidenziandone la provenienza, e quindi attribuendone la responsabilità”.

La metafora bellica in riferimento alla pandemia causa uno slittamento semantico che male accettano anche coloro che la guerra l’ hanno vissuta da vicino. Nel pezzo Chiamatelo come volete ma non guerra (pubblicato su Radio Bullets) Barbara Schiavulli, che ha realmente raccontato conflitti dal fronte, scrive: “Qui ti alzi e vai verso la dispensa e al massimo pensi che domani dovrai comprare altra pasta, non come in Iraq dove mamme trascinano i loro bambini al mercato per poi trovarseli fatti a pezzi tra le braccia dopo un attentato. Non è lo Yemen dove i razzi colpiscono gli scuolabus o dove i bambini non si possono mai lavare le mani perché non c’è acqua. Non è un posto dove gli ospedali vengono bombardati. Non è l’Afghanistan dove i bambini camminano per strada sperando di non saltare su una mina.
Non sto sottostimando la tragedia, non c’è una classifica del dolore. Ma pandemia e guerra sono due cose diverse e per nulla avvicinabili. Le parole sono importanti. Sono valori che escono dalle nostre bocche e dalle nostre penne”.

Stiamo raccogliendo i vari articoli sul tema in questa rassegna stampa che aggiorniamo quotidianamente: clicca qui per visualizzarla.